Adozione, il cuore al posto dell’utero

Adozione

L’adozione è un gesto d’amore, di straripante generosità, che cura e ripara. Le altrui e le proprie ferite. È, purtroppo, una procedura farraginosa dal punto di vista burocratico, la cui difficoltà facilita il proliferare di strade alternative alla genitorialità, come l’utero in affitto e i nuovi collage genetici, a scapito di un progetto amoroso e sociale più ampio e decisamente più sano: l’adozione.
L’adozione è la riparazione di una ferita primaria. È il dare e il ricevere amore. È generosità e cura. È impegno e apprendimento. È quel percorso che parte dal cuore, che non passa dall’utero e dai gameti, e che arriva al cuore. Per sempre.

Adozione, bambini nati da altri genitori, e beghe burocratiche

Adozione. Un percorso in salita, irto di ostacoli interni ed esterni alla coppia.
Sono i bambini nati da altri genitori. Bambini che per un motivo o per un altro non hanno i genitori. Bambini che cercano dei genitori che possano amarli profondamente, forse ancora di più dei genitori naturali, proprio perché adottivi.
Di più dei figli biologici. Di più della fatica che devono reggere per averli come figli. Ancora di più.
I nuovi genitori sono dei mancati genitori, provati dalla non genitorialità e dall’infertilità, che non sono riusciti a diventare genitori in maniera naturale,
Stremati, economicamente e psichicamente, dai fallimenti delle tecniche di procreazione medicalmente assistita.
Provati ulteriormente dall’iter difficoltoso dell’adozione, provati economicamente per le spese che hanno dovuto sobbarcarsi per tentare di diventare genitori.
Per amare e per essere amati. Per donare se stessi e per far crescere le loro parti psichiche migliori in un altro essere umano.
Sono dei genitori che non sono diventati tali in sala parto, per loro c’è voluto tantissimo tempo. Tanti luoghi. Tanti uffici. Tanti voli. Tanti tagliandi psicologici. Tante spese. Tante rinunce.

Tre estranei che diventano famiglia

Si tratta di tre estranei: due genitori e un bambino.
Tre persone che hanno bisogno d’amore e di amare: di dare e ricevere amore.
Tre persone che le faticose e affaticanti leggi italiane hanno finalmente fatto incontrare.
Adottare un bambino è un’esperienza lunga, complessa, ed estremamente costosa. L’iter pre adozione può richiedere da alcuni mesi sino ad arrivare a molti anni.
Un tempo decisamente lunghissimo per la vita di un bambino. Un tempo che dovrebbe essere vissuto in una casa, tra le amorevoli nuove braccia di due genitori, in una stanzetta con i suoi nuovi oggetti, con dei nonni pronti ad accoglierlo e a viziarlo, con le sue nuove rassicuranti abitudini.
E invece, si tratterà di un bambino che non avrà un posto sicuro, che passerà da una famiglia affidataria a un’altra, da un istituto a un altro.
Sono bambini che nascono nel cuore, non in utero.
Il loro percorso verso una base sicura, come direbbe Winnicott, è estremamente complesso. Nella vita di ogni bambino, lo stile di attaccamento – che deriva dalle primarie interazioni con la madre – si organizza come un insieme di regole silenti e inconsce, che guideranno poi il suo futuro comportamento nella vita.

La paura dell’abbandono

La paura dell’abbandono fa da denominatore comune all’adozione. Ne soffrono i neo genitori e i bambini adottati.
Sono genitori che nonostante gli impegni profusi, talvolta, vivono con la paura cronica di essere abbandonati.
Con il terrore che il loro bambino, per il richiamo dell’Africa, per esempio, possa decidere di tornare in patria.
Possa decidere di andare a cercare i suoi genitori biologici. Possa cercare di capire perché è stato abbandonato, nel tentativo di mettere insieme quel doloroso puzzle che è la sua esistenza.
La stessa paura dell’abbandono la provano anche i bambini.
Sono bambini che hanno paura di essere abbandonati ancora una volta nella vita. Il loro secondo abbandono.
Bambini che si svegliano nel cuore della notte gridando, perché non sanno dove si trovano. Sono bambini di un’altra etnia e di un altro colore di pelle che dovranno integrarsi in un ambiente che non è loro. Che dovranno abituarsi a mangiare un cibo che non riconoscono come tale, che non gli evoca ricordi ed emozioni, che dovranno abituarsi a indossare abiti mentali italiani.
Un bambino che non somiglia né alla madre né al padre.
Un bambino che avrà dei nonni che lo ameranno come se fosse loro, ma che in realtà non lo è.
Un bambino nero, cinese, coreano, adottato da una coppia di italiani è un bambino che dovrà fare i conti tutti i giorni con il razzismo. Con il pregiudizio. Con il pettegolezzo. Con lo sguardo giudicante della gente che si chiederà come mai è figlio di quei genitori.
È un bambino che per diversità di pelle e caratteri somatici non potrà mistificare il suo essere stato adottato. Le sue origini. Così, invece che andarne fiero, le sentirà come un timbro di diversità.
Sono dei piccoli che per tutta la loro esistenza, nonostante l’adozione e l’amore ricevuto, cercheranno di ricomporre i pezzi della loro identità.

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Dalla base sicura all’esplorazione del mondo, note psicoanalitiche

La salute psichica dei bambini dipende anche, e soprattutto, dalle precoci esperienze vissute con la figura materna.
Appena nato, il bambino e la madre non sono scissi, nonostante il parto.
Sono un tutt’uno indivisibile, fuso e confuso.
Dentro questa originaria unione – tra il ricordo del liquido amniotico, la vita intrauterina e le braccia postume che contengono della madre – il piccolo non percepisce la madre come un oggetto distinto da sé, altro da sé: i suoi confini corporei e psichici sono ancora indefiniti.
Fluttuano dalla madre e lui, e da lui alla madre.
La madre rappresenta un luogo simbolico, relazionale e fisico, che lo aiuti, con gradualità e amore, alla scoperta di tutto ciò che è separato da sé. Per evitare paure e strappi.
Così, all’interno di questo spazio sicuro e accogliente, la madre tutela il suo bambino, e gli assicura una continuità non traumatica dell’esistenza.
Queste operazioni di accudimento – che mancano del tutto ai bambini adottati – consentono di porre le basi sicure per approdare a una crescita sana: una personalità integrata, un buon senso di realtà, una buona dose di sicurezza interna, la capacità di avere fiducia nel mondo, e la capacità di tollerare le frustrazioni.
Il legame tra la madre adottiva e il bambino adottato dovrà assolvere al faticoso compito di ricostruzione del legame d’amore primario.
Un legame che consenta l’accoglienza, la riparazione dei pregressi traumi, e il rivivere tutte le esperienze sensoriali che gli sono mancata durante i primi mesi di vita. Il rapporto con la nuova madre avrà il faticoso compito di ridefinizione del sé del bambino adottato, e per tal motivo, ci vorrà tempo, cura, e infinita pazienza. Il bambino adottato dovrà effettuare una duplice elaborazione del lutto: la prima per i genitori biologici, la seconda per il paese d’origine.

La gravidanza psicologica. Diventare genitori

Diventare genitori, come sappiamo, è un percorso irto di difficoltà. Lo è ancor di più nei casi di genitori adottivi.
Si parte da lontano, dai luoghi dell’infanzia. Da quell’imprinting sensoriale e affettivo che abbiamo ricevuto o meno in dote da piccoli, e che orienterà poi il modo di essere a nostra volta genitori.
Se siamo stati amati, e soprattutto come.
Il trigenerazionale influenza enormemente il nostro modo di diventare genitori: nel bene e nel male.
Una coppia che decide di intraprendere l’impervio sentiero dell’adozione, ha bisogno di una lunga, competente e affettuosa preparazione, volta a esplorare le difficoltà che incontreranno prima, durante e dopo l’adozione.
La gravidanza non avviene esclusivamente in utero, può abitare anima, psiche, mente e cuore.
Le future mamme ai futuri papà adottivi, infatti, durante il lungo cammino fatto di attese e fatiche, talvolta con l’aiuto di uno psicoterapeuta, iniziano a preparare lo spazio per il bambino che verrà. È uno spazio fisico mentale ed emozionale.
Si prepareranno per accoglierlo nel migliore dei modi possibili. Senza pregiudizi, senza false aspettative, senza proiezioni, senza il bisogno di compensare la mancanza di un bambino che non sono riusciti a mettere al mondo.
Questo periodo viene detto gravidanza psicologica, che anticipa quello che sarà poi a tutti gli effetti un parto mentale.
Un meraviglioso evento della psiche. Un miracolo d’amore.
Essere dei buoni genitori, o genitori buoni, non è sufficiente per essere automaticamente dei buoni genitori adottivi.

Qualche dato sull’adozione

Alla parola “adozione” abbiamo contemporaneamente una stretta al cuore e l’orticaria.
La prima è data dal significato simbolico e concreto correlato a un gesto così nobile stracarico d’amore. La seconda dall’associazione mentale e immediata della parola adozione con fatiche, impedimenti, spese, fatiche.
Dal 2010 le coppie hanno smesso di adottare e l’adozione è crollata del ben cinquanta per cento.
Tutti i dati dimostrano che la trafila da intraprendere per l’adozione è davvero estenuante, i costi troppo alti – e non solo quelli psichici – gli enti da cui transitare sono infiniti, e la crisi economica aggrava la possibilità già precaria di adottare un bambino.
Adottare un bambino all’estero costa dai 25.000 ai 30.000 euro, tra spese legali, viaggi all’estero, tasse da pagare al paese d’origine del bambino – non si sa bene perché – e così via.
Tutto assolutamente assurdo e troppo costoso. Una vera enormità, considerando che non tutti possono permettersi tali esborsi economici e che tanti bambini hanno una vera urgenza emotiva.
Hanno bisogno di una famiglia dove crescere e da cui essere amati.

L’eterologa, recentemente sdoganata anche nel nostro paese, ha contribuito enormemente a dare il colpo di grazia all’adozione, che diventa davvero l’ultima spiaggia quando fallisce la PMA.
Come se decidere di adottare non potesse essere la prima scelta e non l’ultima spiaggia.
Un bambino adottato – che sia bianco, giallo o nero – non può essere mistificato e dichiarato proprio, mentre un bambino figlio del gelo – tra gravidanza, parto e dopo parto – diventa socialmente proprio.
Che trattasi di donazione di liquido seminale o di ovociti, la gravidanza sana il dubbio e regala certezze socialmente accettabili.

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Il dopo adozione, uno sguardo ai genitori e al bambino

Dire o non dire al bambino che è stato adottato?
Superata la prima fase di accettazione del processo adottivo, la coppia si trova ad affrontare il dopo adozione. Un percorso irto di difficoltà, di tabù e di dubbi.
La coppia si chiede se dire o non dire al bambino di essere stato adottato.
Nel caso in cui il bambino fosse bianco, non c’è motivo di dirgli dell’adozione. Come se adottare avesse meno valore del generare da un ventre fecondo, così, spesso, i genitori spaventati e confusi, scelgono di mistificare l’adozione.
Quando decidono di dirlo, non sanno mai quando, a che età, con quali parole.
Con che modalità, come se dovessero scusarsi per quello che è accaduto, invece che esserne fieri.
I neo genitori si chiedono se la confessione dell’adozione possa causare dei possibili traumi per la psiche del bambino. Come se, confessargli di essere i suoi nuovi generosi, gli rimarcasse – in silenzio – l’assenza di quelli biologici, con zone d’ombra e note di indiscusso abbandono.
Un’ulteriore paura è data dalla possibilità che un giorno il piccolo possa cercare i veri genitori, quindi, la scelta di non dire nulla dell’adozione e di portarsi questo peso sul cuore, può rappresentare una forma maldestra di protezione dalla paura dell’abbandono.
Un’ulteriore ansia è la paura della diversità, come se i genitori adottivi fossero dei genitori di serie B, e il bambino obbligatoriamente un diverso. Anche lui di serie B.

L’elaborazione della propria storia sgombra il cuore, e lo prepara per l’adozione

Questi e tanti altri dubbi, paure e perplessità, affollano la mante e il cuore dei neo genitori adottivi.
Genitori che faranno davvero pace con i loro demoni interni soltanto quando avranno rielaborato la loro storia personale, in particolare la sofferenza e la frustrazione legata alla scoperta dell’infertilità. Al lutto della non prosecuzione del loro sé biologico.
La scelta di intraprendere l’adozione, nella maggior parte dei casi, non è mai una scelta voluta, ma subita, valutata soltanto dopo i vari fallimenti delle PMA.
La prima scelta è sempre caratterizzata dal desiderio di diventare genitori di un bambino di loro proprietà, con i loro geni, l’adozione diventa un ripiego obbligato e obbligatorio.

Quando un bambino nasce da altri. Ferite e nuove riparazioni

Essere genitori di un bambino nato da altri genitori, con una storia di vita precedente, non è un cammino semplice. È un cammino complesso per i genitori e per il bambino, abitato da un vissuto ambivalente. Regnerà sovrana la paura dell’abbandono, in entrambi, il vissuto di esclusione da parte del bambino, e il bisogno estremo di amore e di accudimento.
Le ferite da rimarginare sono tante e tali che la coppia dovrà avere già sanato le proprie – individuali e di coppia – per potersi occupare davvero di quelle del piccolo appena arrivato.
Le sofferenze dei bambini adottati vanno ascoltate, riconosciute ed accolte senza remore e senza timori.
I genitori adottivi, ancora meno esperti dei genitori biologici, vengono rapiti dal bisogno di rimuovere il passato doloroso e ingombrante del piccolo, facendo partire la vita del bambino dal momento simbolico dell’adozione.
Un tentativo maldestro di nascondere la polvere sotto il tappeto del silenzio e della negazione.
Il meccanismo di difesa della psiche, detto negazione, è altamente nocivo per il bambino, perché, anche se piccolo, ha una sua storia di accudimento, di mancato accudimento, di violenza o di abbandono, con cui dovrà fare i conti.
Non può negarla o rimuoverla.
La storia del piccolo dovrà essere rielaborata con dolcezza e pazienza, con amore e cura, senza entrare in competizione con i fantasmi del passato.
I genitori invece di mentire e glissare, facendo il giro largo delle loro paure, dovrebbero mantenere un atteggiamento di comprensione e di ascolto delle sofferenze del bambino adottato, affinché il silenzio non diventi dolore.

La verità è un caldo abbraccio. Le mezze verità e il dolore

Fornire mezze verità, risposte confuse e confusive alle domande che il figlio adottato pone, far finta di niente, glissare sull’argomento adozione o parlare di altro, fanno passare un messaggio ambiguo.
Come se l’adozione fosse un qualcosa di cui vergognarsi, da tenere nascosto, da non condividere con amore e gioia, esattamente come quando nasce un figlio biologico.
Un figlio può nascere dal cuore, non obbligatoriamente dall’utero e dai gameti dei genitori, ma non per questo sarà un figlio mano desiderato o meno amato.

Radici e ali

Radici e ali sono due lasciti importanti per i nostri figli, la nostra reale eredità d’affetto per la loro crescita.
I bambini adottivi avranno delle bellissime radici ramificate – tra il biologico e i nuovi genitori – e delle ali variopinte e rare; ma devono assolutamente esserne a conoscenza.
Senza consapevolezza non potranno stare ben piantati la suolo, e non potranno spiegare al vento le loro ali. Con orgoglio e leggerezza.

Spezzone di una consulenza

Livia e Marco e il figlio che verrà

Livia e Marco (nomi di fantasia) erano sposati da quasi sette anni senza riuscire ad avere un bambino. Avevano tentato ogni possibile strada verso il concepimento, dai pellegrinaggi fecondativi, ai costosi centri di fecondazione assistita locali, alle inseminazioni artificiali, ma senza risultati. Erano sani, senza alcuna patologia che compromettesse il concepimento, che però non arrivava. Erano veramente provati e spossati da una sessualità vissuta all’insegna dell’inseguimento dell’ovocita da fecondare, un desiderio che si sarebbe dovuto accendere dopo un’ecografia trans-vaginale, attraverso rapporti finalizzati esclusivamente al concepimento e non più al gioco, alla seduzione, al desiderio. Questa sessualità ormai ginnica, amplificata dalle dosi quotidiane di ormoni che Livia assumeva, era un elemento esplosivo sia per il suo umore, ormai stabilmente deflesso, che per la sua coppia, ormai stabilmente in crisi. Erano ormai rassegnati e non volevano prendere in considerazione l’ipotesi dell’adozione, perché vissuta da loro come un surrogato della genitorialità. Trascorrevano le loro giornate tra il lavoro, la noia, le cose da fare e l’assenza totale di intimità e sessualità. Il fallimento del progetto sembrava avere compromesso anche la coppia. Avevano smesso di amarsi, di desiderarsi e soprattutto di sperare ancora. L’impossibilità di diventare madre aveva reso Livia triste, dolente ed estremamente sofferente: nulla aveva più senso per lei, mentre si percepiva vecchia, sfiorita, con un utero marcio, incapace di generare e soprattutto di contenere un figlio. Si sentiva profondamente in colpa nei confronti del marito, immaginando che la responsabilità fosse interamente sua, perché incapace di tenere con sè e nutrire l’alchimia delle varie fivet non andate a buon fine. La maternità o meglio l’assenza di maternità era diventata l’unica forma di identità femminile, ancorata alla prosecuzione della specie, del proprio sé biologico. Il non poter diventare madre era per lei un lutto, un dolore atroce che non riusciva affatto a digerire e che si riproponeva come un cibo indigesto a ogni occasione della vita. Il matrimonio stava naufragando, ma nessuno dei due aveva il coraggio di dirlo all’altro, permanendo in una situazione di assoluto immobilismo e silenzio dei sensi. Si accudivano, erano gentili, non avevano perso le loro buone abitudini, ma erano abitudini concrete, come la buona notte, il buon giorno, il buon pranzo, il sostenersi nei momenti di fatica reciproca, ma non si leggevano più dentro e soprattutto non guardavano più nella stessa direzione. Senza volerlo, e soprattutto senza accorgersene, erano diventati separati in casa. Livia, però, avvertiva un malessere crescente e desiderava trovare una panacea a tutto questo dolore. Si era accorta che era diventata distratta. Spesso, infatti, dopo avere posteggiato la macchina, stentava a ritrovarla. Smarriva il cellulare, le chiavi di casa, stava perdendo il controllo sia di sé stessa che di quella bussola interna che aveva sempre regolato la sua vita. Inavvertitamente si faceva del male, sbatteva, si tagliava un dito, cadeva, si slogava una caviglia. In realtà erano attentati al suo corpo con l’inconscio intento di farsi del male. Un male fisico che avrebbe preso il posto di quello psichico, cupo, sordo e soprattutto insopportabile. Livia mi chiamò per una consultazione. Era confusa sul da farsi, non le era ancora chiaro se intraprendere una terapia di coppia o un percorso individuale. La sua relazione aveva iniziato a perdere le foglie, in concomitanza ai reiterati tentativi di concepimento. Non aveva un male tutto suo, ma uno correlato a un progetto non realizzato. A mio avviso c’erano tutti gli elementi per poter riconcimare quell’antico legame, quell’amore per il quale si erano scelti e avevano scelto di diventare coppia.
Ci lasciammo con la promessa di pensarci attentamente e di valutare pro e contro dei due possibili percorsi terapeutici. Dopo pochissimo tempo dall’ultimo nostro incontro, Livia mi chiama per dirmi che, tra le lacrime e lo sconforto, aveva riflettuto a fondo insieme al marito, e avevano deciso che, anche senza la presenza di un figlio, sarebbero potuti rimanere coppia. Il percorso che iniziammo non fu breve né indolore: il “figlio mai nato” era sempre presente nei loro cuori e nelle loro discussioni diurne e notturne. Livia, nel tempo, si perdonò e perdonò Marco per non essere stato in grado di averla resa madre. Marco, meno stressato e pressato da una sessualità richiedente e finalizzata esclusivamente al concepimento, iniziò a desiderare nuovamente sua moglie, senza vivere con l’ansia da prestazione e da fecondazione. Dopo anni, sgombrato il campo da rabbia, acredine e soprattutto dal “non detto”, intrapresero le pratiche per l’adozione internazionale, promettendomi che, una volta stretto il bambino tra le braccia, la loro prima tappa sarebbe stata da me, in studio.

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