Ci sono le case felici e le case tristi. Le case che alternano momenti di luce a quelli di buio e quelle che invece stanno perennemente al buio e non si accorgono nemmeno di aver spento la luce.
Le case tristi raccontano quello che non viene più detto. Parlano in silenzio. Trasudano sofferenza muta.
Non sono solo case disabitate o impolverate, vecchie o vuote, sono luoghi che raccontano il cuore di chi le abita. Ogni crepa nei muri sembra una frattura emotiva, ogni stanza chiusa un ricordo rimosso.
Hanno muri che trattengono sussurri, finestre che non aspettano più nessuno. Le persiane, abbassate da tempo, somigliano a palpebre stanche, socchiuse.
Il silenzio che vi abita è denso, quasi vivo, come se ricordasse ogni voce che un tempo riempiva le sue stanze.
Le case tristi non piangono, ma si lasciano andare piano: un pezzetto di intonaco che cade, un gradino che scricchiola e che nessuno sistema. L’incuria prese il posto della cura. Aspettano la cura che non arriva, come chi ha perso qualcosa e non sa più bene cosa.
Le case tristi sono specchi: rifletto senza sconti quello che si respira tra le loro pareti. Quando ti trovi in una casa triste lo senti subito: senti il dolore, l’ignavia, l’incuria.
Eppure, anche le case tristi hanno la loro memoria del cuore. Basta accendere una luce, aprire una porta, lasciar entrare una risata e per un attimo smettono di essere sole e tristi.
P.S: Ieri sera sono stata invitata a cena da mia cugina Daniela, che tra l’altro è la mia commercialista, che amorevolmente ha fatto la mia dichiarazione dei redditi e anche una buonissima cena.
Ecco, quella è una casa luminosa, e non soltanto perché è una casa molto bella e curata.
Ha una di quelle luci che ti rimangono addosso anche dopo, quando vai via da lì.
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