L’insofferenza è quella sensazione urticante che ti dice dove non stare. Cosa non fare. Chi non frequentare. L’insofferenza è una bussola. Un indicatore di malessere, e se la sai ascoltare anche di benessere.
Quando ti monta in corpo e nel cuore come una marea africana senti che stai per esplodere, poi, però, solitamente, cerchi di ammansirti e di addomesticare la tua insofferenza, così la maggior parte delle volte la ignori.
Perché è cosa buona e giusta essere cauti, buoni, educati, obbedienti, sudditi del quieto vivere.
In realtà l’insofferenza è la pelle che non ti appartiene più, il battito accelerato che non riesci a rallentare e quello che non senti più quanto ti senti morta ma viva.
Non è rabbia, non lo è ancora. Non è tristezza. Non è dolore. È quel segnale forte e chiaro che qualcosa dentro di te sta duellando con il tuo senso di colpa e del dovere – i soliti noti – pur di essere ascoltato.
L’insofferenza può essere il segnale lampeggiante di un bisogno represso, di un limite oltrepassato, di un cambiamento necessario.
Ti mostra come una segnaletica stradale dove non stai più bene, dove fingi troppo. Ti indica chiaramente che quel luogo o relazione non ti nutre più. L’insofferenza ti strappa dalla rassegnazione, dalla coscienza obnubilata, dall’oblio. È il primo moto di libertà del cuore.
Non è piacevole, non lo è no, ma è autentica. Ascoltarla, riconoscerla e assecondarla è l’inizio di una ribellione silenziosa, quella che precede la nascita di una nuova pelle.
Il dopo, a muta avvenuta, solitamente, è meraviglioso.
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