Noi esseri umani siamo abituati a comunicare con i gesti. Li amiamo, li apprendiamo sin da bambini, li interiorizziamo e li adoperiamo per muoverci nel mondo e nell’altro. Crescendo li condividiamo. Sappiamo che a una stretta di mano corrisponde un saluto, e l’intensità o l’inconsistenza di quel saluto ci parla in silenzio, da pelle a pelle. A una carezza corrisponde un sostegno emotivo o una seduzione. A un bacio l’apoteosi dell’intimità.
E poi ci sono gli abbracci.
Le emozioni fatte di braccia. Quelle due braccia forti o deboli, grandi, dei più grandi, e piccole, dei più piccoli, quelle che si arrampicano pur di arrivare a destinazione. Le braccia leali e rassicuranti di chi amiamo, quelle che stritolano e rassicurano, che incendiamo e calmano.
Quelle che dicono “non ti preoccupare, ci sono io”.
Ci sono le braccia diversamente giovani, quelle raggrinzite dei nostri genitori e nonni. Quelle che contengono la nostra storia, le nostre paure e fragilità del cuore.
Dentro un abbraccio si può abitare, sostare e respirare. Senza un abbraccio si vive male: deprivati e maltrattati.
In questa inversione (speriamo momentanea) di gestualità e significati, quando amiamo non abbracciamo più, stiamo distanti e distanziati pur di proteggere i nostri affetti dal nostro fiato.
Dentro un abbraccio nessuno corre più di nessun altro. Non c’è il passato che richiama a sé, né il futuro con le sue incognite, c’è solo un eterno presente.
Congiunti o non congiunti, un abbraccio rimane il luogo più bello da abitare, dentro il quale ogni pensiero cede il posto al sentire, al battito, alla pelle.
Perché le cose piccole rimangono sempre straordinariamente le più grandi.

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