Quando ero ragazzina, già avvezza all‘ascolto, odiavo la parola dimmi.
Mia madre, donna austera e rigorosa, quando rispondeva al telefono e andava di fretta – perché lei andava sempre di fretta, era imbrigliata nel fare più che nel sentire – mi diceva dimmi.
Quel dimmi era un pugno in pancia.
Come a voler dire: se hai qualcosa da dirmi rallento e ti ascolto, altrimenti la telefonata non ha motivo di esistere.
Perché se interrompi o piombi nella vita altrui, anche delle persone che teoricamente ami, devi avere un motivo.
Crescendo, sofferendo, imparando, sbagliando e facendo tanta terapia, ho capito che quel dimmi era più di un metro di distanza. Era la distanza di sicurezza tra lei e me, e che io non avrei mai usato quella parola. Né con mia figlia, che amo più della mia stessa vita, né con un estraneo.
Dimmi è lapidario. Freddo. Crea distanza, blocca la comunicazione e le emozioni e ti catapulta in una situazione di estraneità.
Una telefonata allunga la vita, recitava una pubblicità del passato, in realtà le parole (del cuore) allungano la vita e regalano vita.
Non sempre si telefona alle persone amate per dire qualcosa. A volte non si dice niente, ma in quel niente c’è tanto, c’è tutto. C’è il desiderio di sentire la sua voce. Di raggiungere la persona che abita dall’altra parte del cavo. C’è il bisogno di essere ascoltati, contenuti, amati. Anche di stare in silenzio. Ma insieme.
Negli anni sono stata rapita dallo studio della dizione e tra le cose che ho imparato c’è stato l’utilizzo delle parole escludenti e di altre includenti, associate alla gestualità.
Ecco, “dimmi” credo che sia la parola più brutta che io abbia mai sentito.
È più di un imperativo, più di un sei fuori posto, mi dai fastidio, ma che vuoi da me.
Così, oggi che sono adulta, quando qualcuno al telefono mi dice dimmi mi si raggela il sangue e mi traferisce laggiù. Quando al telefono e da bambina speravo in qualcosa, in un risarcimento, in un dono, in un ascolto.
Quell’ascolto che oggi è diventato il
mio lavoro e che mi scalda il cuore. Quell’ascolto che si fa abbraccio, reciprocità, cura.
Quando guardo mia figlia o i miei pazienti non sempre c’è qualcosa da dire, spesso c’è solo da sentire.
Le cose importanti non si vedono con gli occhi e non si sentono con le orecchie, ma con il cuore.
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