Chi non ne può avere e farebbe di tutto pur di averne uno. Chi fatica per adottarne uno. Chi lo lascia in una culla girevole perché non può tenerlo con sè. Chi lo mette in una busta di plastica, a 4 mesi di vita, e lo lascia in strada in attesa della sua morte, per soffocamento e inedia.
E chi lo butta dal balcone dopo averlo partorito, con il cordone ombelicale ancora attaccato.
È successo ieri a Trapani.
La neo-mamma aveva diciassette anni, aveva paura della reazione dei suoi genitori, aveva tenuto ben celata la sua gravidanza (mi chiedo come abbia potuto farlo), e ha pensato di partorire in casa e di buttare il bambino appena nato in strada. Senza lasciare traccia.
Penso a questa drammatica storia, a questa famiglia dilaniata, ai sensi di colpa, alla ragazzina e al suo lutto perpetuo che diventerà sempre più lutto man mano che lei diventerà adulta. E penso a quel bambino.
Alla sua pregressa vita intra-uterina da brigante, nascosto e mistificato. Lo immagino nuotare ignaro nel suo liquido amniotico caldo, avvolgente, nutriente. Lo immagino condividere cibi e ansie a bordo di sua madre, giovane e acerba, ma sempre madre; lo immagino rannicchiato e dormiente in posizione fetale.
Non riesco a immaginare la paura di questa ragazza in panne, l’angoscia, il panico.
Non riesco a immaginare quell’istante – minuziosamente programmato o frutto di un gesto disperato e istantaneo – in cui lo ha strappato al suo ventre, lo ha sentito scendere dal suo utero-contenitore, lo ha sentito caldo, vivo, una parte di sè stessa e lo ha buttato via.
Questo drammatico reato rimarrà il suo lutto, la sua spina nel fianco. Il suo tutto e il suo vuoto. Il piccolo rimarrà vivo nell’assenza, nel dolore e nello strazio.
Ogni figlio, qualunque guaio possa commettere, dovrebbe avere l’assoluta certezza di poterne parlare con i suoi genitori.
A volte, un abbraccio rassicurante della famiglia o di un adulto di riferimento può davvero cambiare la vita: di chi agisce un danno e di chi, suo malgrado, lo subisce.

Fonte: TG5

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