Sarebbe bello nascere infrangibili. Ma questo non accade. Così ci troviamo fragili come il cristallo e duri come la pietra, a volte anche nello stesso momento.
Talvolta basta una parola che ferisce o che tradisce e ci frantumiamo. Anche il cuore più resistente ha una crepa, il punto di massima vulnerabilità, il suo unico e solo tallone d’Achille.
La ferita primaria che ci contraddistingue diventa il nostro marchio di fabbrica, il nostro danno e nostro dono. Conosciamo il mondo e gli altri, siamo attratti o respinti da un uomo o da una donna per misteriosi motivi, in realtà, è sempre lei, la crepa del cuore, che orienta lo sguardo, l’interesse, la fuga; la magia o l’anomalia (di un comportamento o di una scelta).
Durante il corso della vita facciamo finta che non ci sia, così la ignoriamo, la tacitiamo, la trasformiamo in sintomi e guai, in lenzuola stropicciate e vuote, nel deserto del cuore, in infinite chat che occupano vuoti infiniti, pur di sentirci infrangibili.
Poi, un bel giorno, quando il dolore tracima gli argini della sopportazione tocchiamo con mano che l’unico antidoto al dolore è il dolore. Accarezzarlo, far pace con lui, tenerlo per mano e farci tenere per mano in direzione traversata.
Utilizzarlo come se fosse Caronte, il nostro traghettatore di fiducia.
I demoni e i traumi ci rendono infrangibili, chi ha subito un danno e chi si occupa di quelli altrui deve averne cura perché grazie a lui, oltre l’usura del tempo, diventerà infrangibile.
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