La pandemia non è una psicoterapia

Adele è stata lasciata senza preavviso a inizio pandemia, in barba a ogni bon ton dell’abbandono.
Alessandro ha messo in pausa il suo rapporto con l’amante per cercare di stare con la moglie, nonostante tutto, nonostante tutti.
Giulia e Massimo, coppia in crisi da sempre, collerici e iracondi, si sono chiusi in casa in compagnia dei loro alti e bassi d’umore.
Riccardo aveva fatto l’amore per la prima volta, e adesso teme di non saperlo fare più.
Furio, da timido è diventato spavaldo grazie a Tinder, ma adesso dovrà incontrare le sue conquiste e non ha idea di come si faccia a sedurre davvero.
Giuliana si impossessa del cellulare del marito, legge le sue chat appassionate con l’amante: vede le loro foto, sente i loro sospiri; e niente sarà più come prima.
Attilio è un hikikomori, è felice di esserlo. Sta bene in casa, nel silenzio della sua stanza. La sua vita è una fase uno prolungata, adesso che lo invitano a uscire si sente profanato e anche irritato, e non sa come reagire.
È passato il tempo del pane fatto in casa, della pasta fatta in casa, delle pieghe fatte in casa, dei tutorial e di Skype ad oltranza, e adesso la vita ci chiama.
Il coronavirus si presta a più letture: fantasiose e meno fantasiose.
Una lettura superficiale confonde la pandemia per una psicoterapia facendoci credere che siamo diventati tutti più buoni, più gentili, più attenti. Più empatici e altruisti. In realtà, siamo tutti semplicemente più spaventati.
Vivere una pandemia non equivale a fare una psicoterapia. Tutto quello che c’era di dolente e di irrisolto prima dell’avvento del virus e della quarantena ritorna immodificato nella terra del dopo.
Le ferite sanguinanti, i dolori muti e le parole non dette non si trasformano magicamente, ma vengono messi in pausa unitamente alle emozioni ambivalenti e contrastanti, e ai vantaggi secondari dei sintomi.
Ebbene sì, anche i sintomi regalano insospettabili vantaggi.
La possibilità di cambiare e di intraprendere la strada della qualità di vita – amorosa, affettiva o lavorativa – è molto più faticosa e oscura rispetto alla certezza di rimanere lì, immobili, impantanati dentro le sabbie mobili del proprio disagio, per paura della vertigine del cuore. I sintomi non si impauriscono né dagli arresti domiciliari né dalla quarantena, rimangono fedeli compagni di vita, ben nutriti dall’ignavia esistenziale.
Per trasformare la pandemia in psicoterapia bisognerebbe smettere di abitare la vita in modo inconsapevole e arrendevole, corteggiarla con desiderio, afferrarla con entusiasmo sino a
lasciare spazio all’energia e alla magia. Essere vivi non sempre significa vivere, anche in post-quarantena.

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