Quando riportai mio padre a casa e mi dissero che non c’era più niente da fare, i giorni successivi alla decisione presa furono drammatici.
Furono bui, pieni di speranza e di paura. Di frasi sussurrate piene d’amore e di coraggio. Di consapevolezza e di illusioni d’amore. Di notti sul divano e di lacrime.
Mia madre, mia sorella e io stavamo amorevolmente accanto al suo letto senza lasciarlo mai da solo.
Avevo paura della sua paura, della sua angoscia. Ero certa che tra una crisi epilettica e un’altra, lui era lì, con noi, si preoccupava per noi, della nostra paura. Ci ha sempre protette, ero certa che lo stava facendo anche da quel letto di casa.
Accanto al suo letto gli stringevamo a turno la mano per fargli sentire la nostra presenza. In realtà, io volevo ancora sentirmi figlia, tra le sue mani grandi e protettive.
Volevo sentirmi la sua Valeria, la sua bambina, da proteggere e da amare a dismisura. Sapevo che con la mia mano nella sua non mi sarebbe mai successo niente.
Feci una foto, coraggiosamente o incoscientemente, e la salvai tra le foto preferite. Quella foto la vado a trovare ogni qual volta ho bisogno di sentirmi ancora figlia.
Nicolò Zanardi, figlio del nostro campione preferito, stringe a sé la mano di suo padre per dargli coraggio, per farsi coraggio. Per lottare insieme a lui, per far sì che lui non smetta di lottare, che conti i suoi famosi cinque secondi, pur sapendo che potrebbero diventare cinque giorni o cinque settimane.
Anche io, come Nicolò, mi sono sentita accanto al letto di mio padre, ancora una volta a sperare ancora.
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