Quanto era bello il tempo in cui un adolescente si truccava di nascosto o si attorcigliava la gonna alla vita per farla sembrare più corta e andava a scuola in anticipo per incontrare il primo amore della sua vita.
Quanto era bello il tempo in cui durante la ricreazione il cuore accelerava perché c’era quel ragazzo, quella ragazza, così tanto corteggiato che incontrarlo diventava un pugno in pancia e un brivido sulla schiena.
Quanto era bello il tempo in cui all’uscita della scuola c’era una calca in cui per sbaglio la mano di uno sfiorava quella dell’altro e il profumo di uno si inerpicava nella narici e nel cuore dell’altro.
Occhi negli occhi, mani nelle mani, cuore nel cuore. Presente nel futuro.
Quanto era bello il tempo in cui c’era quell’appuntamento tacito e silente per l’indomani, che diventava dopodomani e poi posdomani.
Nella stessa scuola, allo stesso orario: un rituale lento e muto.
Adesso c’è la pandemia, c’è il virus. C’è anche la variante inglese. E c’è la Dad.
Quel luogo triste e asettico, per niente consolatorio, che tenta maldestramente di sostituirsi alla scuola. Quel luogo, invece, fatto di persone e di umori, di scambi ed interazioni, di sogni e di passioni.
Di mal di pancia finti per andare in bagno e rintanarsi dalla bidella per eludere l’interrogazione, e veri per i brutti voti e l’ansia che divora.
Ma lì, in quel luogo vero, l’alunno cresce, impara, sposta i limiti di sé stesso, duella con l’ansia e diventa adulto.
La scuola, quel luogo di incontro e scambio si fa crescita, si fa emozione e anche passione.
Individuale e condivisa.
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