Noa, il giorno dopo. Tra cicalecci e deliri

La morte di Noa ha toccato corde emotive profonde in tutti noi. Madri o non. Genitori e figli, o semplici spettatori di una tragedia così nefasta.
Noa sarebbe potuta essere la figlia di tutti noi, e una simile deriva di un cuore che ha voluto smettere di battere si sarebbe potuta abbattere su ogni genitore.
Nessuno è immune.
C’è chi ha dato la notizia. Senza giudicare o far passare il suo pensiero, per paura, per non esporsi, per quieto vivere.
Chi l’ha adoperata per cavalcare l’onda mediatica.
Chi l’ha commentata sui social, tra like e commenti vari ed eventuali.
Alcuni clinici sono stati intervistati, altri ne hanno parlato ai loro corsi. Altri ancora sono rimasti silenti.
Il Papa ha parlato del dono della vita, e c’è chi ha risposto che “non per tutti la vita è un dono”.
Avevo pensato di non tornare più sull’argomento e di farla riposare in pace.
Ma questa mattina avevo ancora altro da dire. Mille pensieri e riflessioni continuavano a ribollire dentro di me.
Una ragazzina ammalata di un male psichico non può smettere di vivere.
Noa ha abitato il girone dei dannati, ha gridato utilizzando i social, ha scritto un libro per lasciare traccia di sé, che le sopravvivrà, ha lottato a modo suo.
Non si muore per una psiche fratturata; anche la psiche si ingessa.
Questo non equivale a dire che il male oscuro, quello dell’anima, sia meno grave di una malattia terminale o cornica, significa invece che è curabile.
Nessuna malattia psichica – non psichiatrica – è avara di progettualità, di miglioramenti e di ricadute.
Ogni persona, più che malattia, prima o poi, trova la sua cura.
Non esistono stupri uguali agli altri, perché ogni individuo reagisce o meno a modo proprio.
Ed è proprio quel “modo proprio” che diventa risorsa o condanna. Ed è proprio quel clinico, e non un altro, a trovare la strada maestra per accedere a quella fortezza inespugnabile.
Quella di Noa, a me sembrava socchiusa più che sprangata, aveva lasciato tracce esattamente come Pollicino.
Riprendo una frase che mi ha davvero irritata: “la vita non per tutti è un dono”, la riprendo e sostengo, in virtù dei pazienti che ho avuto il privilegio di incontrare nel mio cammino, che quando la vita ferisce, tradisce, pugnala e trafigge l’anima e il corpo, le cure diventano la strada maestra verso la guarigione e la rinascita.
Verso la trasformazione di ciò che è stato.
Non è chiaro che tipo di cure abbia fatto Noa, cosa non ha funzionato, che strategie di intervento, quando e per quanto tempo, quindi, la mia non è un’accusa alle terapie svolte, ma un voler sottolineare che esistono svariati protocolli di cura per i disastri della vita. Tutti. Questo è un messaggio di fondamentale importanza da far passare a tutti. Adolescenti inclusi.
Le terapie combinate – farmacologiche e psicoterapiche -, per esempio, aiutano il paziente a riequilibrare il tono dell’umore, a curarlo dalla profonda deflessione in cui si è trasferito, leniscono quel senso di angoscia cupa e lo tirano fuori, anche se di qualche centimetro soltanto, dal buco nero nel quale è precipitato. Lo psicoterapeuta fa il resto.
Non tutti i pazienti si trovano bene con tutti gli psicologi, esistono coppie più fortunate ed empatiche, e altre che non funzionano, che falliscono tristemente. Che non sono candidate a camminare insieme.
Deve essere l’onestà del clinico a comprendere cosa non funziona e perché, e inviare ad altro da sé nel caso in cui non fosse lui il destinatario del percorso di cura. La responsabilità di una vita è davvero enorme per permettersi di sottostimare i rischi.
La storia ci tramanda di esempi viventi o vissuti di artisti, poeti, cantanti, segnati dalla vita, che grazie alla loro sofferenza sono diventati ciò che sono.
Spesso è proprio il dolore subito il vero dono; è l’affronto con il quale lottare, per il quale migliorarsi e tirare fuori energie impensabili, che non si pensava nemmeno di avere.
L’anoressia, per esempio, è la malattia del vuoto, della fame d’amore, del bisogno. Molte pazienti anoressiche sono donne talmente intelligenti ed empatoche da avere una vera marcia in più nella vita.
Sono donne che, curata la loro piaga del cuore, imparano come trasformarla in risorsa, in pietra preziosa.
Quando, a soli diciassette anni, si decide di smettere di vivere – in maniera assistita o meno, legale o meno, non è questo il punto – questo gesto rappresenta l’ultimo atto della ribellione di un’adolescente.
Purtroppo senza ritorno.
Noa ha punito con la sua morte chi è rimasto in vita, tra sensi di colpa e un senso schiacciante di fallimento.
Questa tragedia va trattata con cura, perché dobbiamo, tutti noi, evitare di far passare un messaggio falso e inquietante, con il rischio di emulazione postuma.
La morte non è la soluzione, la cura o non cura, per i malanni dell’anima.
Esistono le cure, i tso dell’anima.
Soprattutto a diciassette anni, quando la psiche, il corpo e il volere di oggi, non saranno mai quelli di domani.

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