Quando si spengono i riflettori, il dolore si fa silenzio

Forse perché Noa aveva esattamente l’età di mia figlia. Forse perché anche lei era bionda e dalla pelle color luna.
Forse perché sento schiacciante il peso del mio essere mamma e del mio essere clinico.
Forse perché il mio essere mamma e contemporaneamente essere clinico è un ruolo dalla fatica immensa.
Forse perché mi sono identificata a lungo in questa mamma, e il dolore non smette di bussare alla porta del mio cuore.
Forse perché un clinico deve essere non giudicante ma di certo non pensante.
Forse perché mio padre è morto per un tumore al cervello straziato dalla sofferenza e nella coscienza, e io avrei voluto accompagnarlo in altro modo alla sua morte. In riva al mare di Aci Trezza, senza tubi e senza flebo che simulavano la vita.
Forse perché nessuno può decidere della morte altrui, ma della vita di una figlia adolescente si.
Sicuramente perché non è possibile morire a 17 anni.
Sicuramente perché questa morte, sdoganata come possibile soluzione per una vita trafitta, non può e non deve passare inosservata.
Questo mi obbliga a scrivere ancora.
Mi sono chiesta se fosse giusto decidere al posto di un figlio? E mi sono detta di sì. Mi sono chiesta se fosse giusto assecondare un figlio, anche in punto di morte? E mi sono detta di no.
Ho immaginato quanto dolore avesse provato questa madre, già provata da quella bestia che si chiama anoressia. Quale sentimento di schiacciante inutilità nei confronti della scelta della figlia le avesse e le farà compagnia.
Così il suo dolore è diventato mio.
Un figlio è vita, progetto, amore.
Un figlio è responsabilità, fatica e stress emotivo. Dubbi e paure.
Ci interroghiamo su cosa sia giusto fare per loro, se lasciarli decidere sul dafarsi o indirizzarli.
Se guardarli da lontano mentre sbagliano e aiutarli in silenzio a rialzarsi.
Se assecondarli nel fare una dieta folle, scriteriata, proprio perché in prossimità della prova costume, o imporsi sapendo di ottenere il risultato opposto. Il loro digiuno.
Il ruolo del genitore è veramente faticosissimo. Quando subentra poi un buco dell’anima che si chiama anoressia e poi depressione, oppure depressione e poi anoressia, tutto diventa ancora più faticoso.
Accompagnare alla morte un figlio significa morire insieme a lui.
Significa avere smesso di sperare con lui, per lui, e al posto suo.
Un figlio che posta sui social un progetto suicidario deve essere considerato un malato grave. Un malato, che anche se mentalmente lucido, ha bisogno di Qualcuno che gli presti la sua volontà, e che si sostituisca alla sua di volontà.
Anche per breve tempo, sfidando il suo odio, i sensi di colpa, la paura di sbagliare.
Quando i riflettori si spengono, e il sipario della fine vita si abbassa irreversibilmente, non è più possibile amare e sperare.
Lottare e curare. Anche contro la volontà di chi non vuole essere curato.
Perché quello che vuole oggi, non è detto che lo voglia domani.

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