Credo di avere un problema profondissimo con l’eccesso di socialità. In realtà l’ho sempre avuto, ma adesso è decisamente peggiorato. Per eccesso di socialità non intendo ovviamente le discoteche, gli aperitivi e gli eventi mondani da cui sono sempre scappata a gambe levate, ma mi riferisco alla modalità di stare in mezzo alla gente – poca, cara, si presume garbata – per un tempo che sia più dilatato di quello di una pizza.
Quando si trascorrere anche mezza giornata in compagnia continuativa di qualcuno può capitare che questo qualcuno – o più d’uno – parli in continuazione. Senza sosta. Senza pietà. Si tratta del tuo tempo libero che hai scelto di trascorrere in compagnia, di cui ti penti subito dopo.
Molte persone scambiano la compagnia per uno sfogatoio a costo zero: una sorta di spazio – il tuo mondo interno – destinato alla libera espressione di proteste, lamentele, ansie, preoccupazioni, malumori, racconti, aneddoti, ricordi, sogni ad occhi aperti, inutilità varie ed eventuali. Il tutto senza sosta.
Tu annaspi, dai chiari segni di insofferenza, fai dei cenni con la testa come se annuissi ma in realtà non parli – perché non ne hai la possibilità e perché sei stravolta -, ti assenti nella presenza, ma loro non demordono.
Ti hanno addentato alla carotide e non mollano finché non ti hanno succhiato l’ultimo soffio di vita.
Il dialogo e la compagnia, che non è una psicoterapia, sono ben altra cosa. Quello spazio abitato da entrambi o più d’uno con rispetto, ascolto, alternanza di condivisioni e di silenzi. Di parole e ascolto. Di reciprocità e nutrimento. Ma soprattutto di rispetto.
Sapere e sentire quando si può parlare, di cosa e con che ritmo e segno di grande eleganza comunicativa. Abbiamo tristemente smarrito tutto.
Pensiamo che l’altro sia una sorta di chat di Whatsapp la cui capienza è infinita. Anche quando l’altro dà chiari segni di sofferenza e insofferenza.
P.S: pensieri in corsivo sul vuoto e pieno nelle relazioni e nella vita, un tema a me molto caro.
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