Infingardo. Parola desueta ma affascinante, almeno per me. È una parola che mi riporta alle terre dell’infanzia. Quando la sentivo pronunciare da mio padre non ne conoscevo il senso, mi sembrava irriverente ma mi piaceva la sua musicalità e la pienezza del suono. E mi piaceva, soprattutto, il tono punitivo ma elegante nei modi che sfoderava mio padre quando, con perizia e mirata oculatezza, la adoperava parlando di qualcuno.
Pian piano, crescendo, ho compreso il suo reale significato, quello drammaticamente profondo, e mi sono accorta di quanto sia una parola drammaticamente attuale soprattutto in amore.
Per infingardo si intende colui o colei che è schiavo di un’avvilente e colpevole inerzia o passività.
Le persone che per cattiva volontà fuggono da ogni fatica, da ogni impegno longevo; persone pigre nell’operare; fannulloni, indolenti.
Da adulta, dopo una formazione infinita, ho deciso di occuparmi prevalentemente di coppie e di cuori. Dei misteri del sentimento più complesso e semplice che ci sia, l’amore, delle coppie zoppicanti, acerbe, mai nate anche se coniugate, in crisi, in cammino, lacerate e ritrovate, adultere, infelici, confuse e immobili, sole pur stando in coppia.
La parola infingardo risuona sempre dentro di me e mi riporta a mio padre e alla sua infinita saggezza.
L’amore non è solo amare – nome della mia rubrica sull’amore su La Stampa -: il primo accade, il secondo necessita di impegno a profusione, di dosi massicce di pazienza e alleanza, e di mille altri ingredienti.
Ma nonostante ciò, in amore ci sono tante persone che a battito cardiaco rallentato smettono di concimare il loro rapporto di coppia, diventano
schiavi di un’avvilente e colpevole inerzia o passività. Ed ecco che l’amore naufraga in maniera inarrestabile.
Gli infingardi del cuore, prima di gridare alla crisi di coppia, al tradimento, all’abbandono subito o agito, alla colpa che è sempre degli altri, dovrebbero imparare l’arte dell’editing amoroso continuo.
Quel tagliando salute amorosa che fa del sentimento un privilegio.

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