In periodi di Olimpiadi a me viene in mente una categoria di persone invisibili: i lavoratori agonisti.
Coloro che, mossi da uno spirito di sacrificio e abnegazione assoluta, consegnano la loro vita al lavoro. La derubricano di quell’aspetto gaudente e godereccio e la infarciscono di missioni e successi.
Lavorano sodo, senza distrazioni o cospirazioni, per il bisogno ammantato da piacere di farlo.
I maratoneti sono solitamente persone cresciute a pane e senso del dovere con qualche spolverata sparsa di senso di colpa (il cugino di primo grado del senso del dovere).
Spesso, anzi sempre, hanno barattato l’amore per la perfezione, le certezze affettive per i bei voti scolastici, le ricompense emotive per i successi lavorativi. Nell’equilibrio acrobatico tra il dare e l’avere regna sovrano il dare, anche a scapito di una fatica immensa e profusa.
Una vita da funamboli tra perfezionismo e dovere, tra fatica e ritmi serrati.
Chi è benedetto o maledetto da questa sindrome, del lavoratore maratoneta, è afflitto da più sintomi che si manifestano in due momenti ben precisi: l’astinenza dal lavoro forzato e la fatica cronica.
Chi lavora duramente ha difficoltà a rallentare, anche quando è in fin di vita, stenta a leggere i segnali del proprio corpo e della propria mente e quando li riconosce li ignora oppure sposta in avanti il limite della fatica per raggiungere traguardi sempre più audaci. Come fanno i nostri campioni olimpici. Per un meccanismo perverso ma tanto utile ai colleghi e ai capi del lavoratore agonista, quando cerca di rallentare o di andare in vacanza viene colto da una crisi di astinenza da lavoro in piena regola. E lavora anche li, per la felicità di tanti.
Il circolo nel quale si intrappolano senza volerlo è chiaramente vizioso ma non diventa virtuoso facilmente perché affonda le sue radici in quelle terre complicate e impervie dell’infanzia.
Ed è proprio da lì che bisogna partire per far diventare il luogo del lavoro a termine, ben differenziato da una cerniera invisibile da quello del piacere. Per evitare rischiose derive della qualità di vita.
Da anonima agonista posso confermare che rallentare non è affatto facile!

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