Mio padre mi diceva sempre: fai del bene e scordalo, fai del male e ricordalo. Ero piccola e non comprendevo sino in fondo il reale significato di questa pillola di saggezza. Adesso che il significato di quelle parole mi è rimasto addosso e dentro, me lo ritrovo spesso durante le mie giornate da osservatrice-scrittrice.
Mio padre era un uomo elegante e raffinato, un vero signore d’altri tempi, figlio a sua volta di un padre gentiluomo, dai modi garbati e nobiliari. Mai un tono acceso, una parola fuori posto o piccata, mai un gesticolare volgare e minaccioso, mai una e aperta e sgraziata, mai un silenzio astioso o un turpiloquio.
Il garbo e la gentilezza erano i due capisaldi del suo modus vivendi.
Osservavo mio padre grato e fiero, lavoratore indefesso, direi agonista, mai stanco o lamentoso, sempre disponibile e operoso in casa e fuori casa, e interiorizzavo senza saperlo il concetto di disponibilità d’animo e di cuore. Tra le sue labbra c’erano sempre un sorriso e un sì.
Nella sua estrema disponibilità e nella fattività di mia madre ho imparato la gratitudine. Perché tutto (e tutti) non ci è dovuto, e anche le cose belle e buone vanno riconosciute, meritate e apprezzate; anche quando l’amore è discendente.
Gli ero e gli sono grata perché hanno lavorato per me, per gli studi che mi hanno consentito di fare, per il rigore dell’educazione che ho ricevuto, per la costanza, la dedizione, la cura, gli esempi viventi. Per avermi tramandato il rispetto per persone anziane, per la diversità, per la sofferenza della animo umano. La capacità di soffrire per un randagio senza casa, per un bambino orfano e un bambino africano con il suo ventre gonfio di niente; ed essere infinitamente grata al cielo, a Dio, a loro, ai miei nonni operosi per tutto quello che avevo e che spesso non capivo di avere.
Oggi che ho Instagram per lavorare e per sensibilizzare i lettori alla cultura sessuologica, psicologica e dell’amore – e ho pure imparato a mettere le storie con il link al mio sito, un vero successo considerando da dove sono partita! – osservo un’ingratitudine dilagante.
Ragazzine e ragazzini, davvero piccoli e acerbi, postano borse firmate con prezzi da capogiro, orologi da adulti benestanti, barche e resort di lusso. È tutto un postare e un mostrare. L’esasperazione di un’apparenza scorporata dall’ombra di un contenuto e di un’emozione.
Figli del benessere e dei sacrifici di chi li ha preceduti sembrano essere sempre più esigenti e anche intransigenti, abituati al benessere e alla poca fatica, poco inclini alla riconoscenza. Paragoni, confronti, competizioni silenti, duelli tra post e toni ingrati. Carestia di gesti d’affetto e di reciprocità della gratitudine.
In fondo, la riconoscenza e la gratitudine sono ingredienti dell’amore. Che sia amicale, genitoriale o coniugale. Un dono inaspettato, anche e soprattutto non costoso ma simbolico, un biglietto affettuoso, un gesto di alleanza e intimità. A volta basta davvero poco per far sentire speciale la persona che amiamo o che vogliamo bene.
L’irriverenza e l’ingratitudine non sono altro che delle vere ed efferate coltellate a lento rilascio, il cui dolore lascia tracce e cicatrici a fior di pelle (e di cuore).
La riconoscenza, termine e concetto talmente desueto da essere in caduta libera, è la memoria del cuore di chi ci ha donato amore, dedizione e amorevole presenza, talvolta senza pretendere assolutamente nulla un cambio se non il benessere del destinatario di così tanto amore.
L’ingratitudine, invece, è il peggior tarlo che possa infliggere l’animo umano: figlia della fragilità, dell’arroganza e della superbia.
Tre genitori degni di nota.
Avere un debito emotivo nei confronti di chi amiamo e di chi si prende cura di noi equivale al dare l’acqua ai fiori per evitare che marciscano.

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2 Commenti. Nuovo commento

  • Teodosio marmo
    27 Luglio 2021 11:28

    Che parole meravigliose carissima dottoressa Valeria, oggi più che mai, una vera lezione di vita. Grazie di cuore, con vivissima riconoscente ammirazione

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