Premessa: è una riflessione polemica. Dedicata ai commentatori abitanti dei social. A coloro che non vanno mai oltre il titolo.

Sarebbe bello andare oltre il titolo. Superare la prima riga. Magari addentrarsi tra la terza e la decima. E perché no, fermarsi anche a metà pagina, tornare indietro, assaporare, rileggere. Pensare, capire, indignarsi, riflettere.
Il tutto prima di commentare.
Ogni scritto, quelli che decidiamo di leggere e anche di commentare, dovrebbe incuriosirci o indignarci. Instillarci qualche domanda, insinuarci un dubbio, una riflessione o il nulla.
Qualche parola si intreccia o si incastra con i nostri più profondi ingranaggi del cuore, altre scivolano via per tornare in seguito o mai più.
A me capita con alcune delle mie penne preferite, poche purtroppo. È come se amoreggiassi con i loro testi.
Apro l’iPad, so di trovarli lì ogni mattina o sera – perché le cose belle, testi inclusi, hanno bisogno di uno spazio interno ed esterno esclusivo fatto di silenzio, di pace e di profonda introspezione per poter essere assaporati – e accade un incontro.
Così inizio la mia lettura in religiosa attesa di capire e sentire cosa ha da dirmi e darmi quel testo. Soltanto dopo, dopo averlo assaporato, digerito, compreso, nel profondo rispetto del suo autore, commento. Sempre che io abbia qualcosa da dire o da ridire.
Questa è una riflessione polemica perché ogni volta che leggo, e non mi riferisco soltanto ai miei scritti in abbonamento – quindi è davvero facile non andare oltre il titolo -, ma anche agli altri non in abbonamento e a quelli di tanti altri autori mi indigno e mi addoloro profondamente.
Chi scrive lo sa. Sa bene che dentro ogni parola, nell’interstizio più profondo di una riga c’è un pezzetto di anima e di cuore, e in fondo gli piacerebbe che il lettore provasse rispetto e anche un po’ di affetto.

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