Ci sono quelli di gola, quelli di cuore, e quelli di penna.
Con una penna, e grazie a una penna, si può arrivare dappertutto. Si può sentire, vedere, viaggiare da fermi. E anche peccare.
Chi scrive lo sa, vive tante vite e abita tanti mondi. Può diventare il personaggio a cui dà vita e a cui regala le sue parole e le sue paure. Può sentire lo strazio di un abbandono o di un addio, e diventare quell’abbandono e quell’addio.
Può amare intensamente come la sua eroina o il suo amatore seriale preferito. Può rimanere a lungo avvolto tra quelle lenzuola, quel profumo di crostata appena sfornata e può tornare con la mente e con il cuore lì, tra quelle pagine, tra quelle mura, tra quelle parole, tra quei ricordi.
Chi scrive osserva e vive come se scrivesse sempre. Guarda il mondo da un oblò: quello della sua penna parafulmini. Scorge emozioni, cattura attimi e li consegna all’eternità, racconta storie e mentre le racconta diventa quella storia.
Con una penna si arriva dappertutto: si naviga, si vola, si visitano terre (esterne e interne) inesplorate. Si diventa Caronte e si trasportano i lettori altrove, si attraversano viuzze chiamate emozione e immaginazione, ascolto e fantasia. Si raccontano cibi, riti e rituali, e tradizioni e insieme alle parole in fila indiana si assaporano gusti inediti.
Con una penna si investigano le emozioni più profonde, quelle ferme lì a decantare, e mentre le scrivi le comprendi, e più le comprendi e più le scrivi.
Quando ero bambina, e poi ragazzina, e non avevo il cellulare con le sue meravigliose note e infiniti fogli word, avevo l’abitudine di scrivere sul palmo della mano un pensiero, una frase, una parola, per paura di smarrirla.
Quando poi, finalmente, mi ricongiungevo con una penna e un figlio la ricopiavo e mi sentivo felice perché era ancora con me.
Da quella parola o quello strafalcione veniva fuori un racconto, una pagina di diario, uno scritto.
Scrivere è sempre stato per me un passe-partout per aprire (e anche creare) tante porte. La penna – adesso i miei pollici sul cellulare – per me è una bacchetta magica; grazie a lei metto ordine nel disordine e ho la sensazione di realizzare incantesimi.
Nel tempo mi sono accorta che nei confronti delle parole scritte ho un debito di riconoscenza: grazie a loro sto meglio, peggio, in cammino, ma di certo non sono più quella di prima.

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  • Tricarico canta: ‘bisogna riscoprire tutti i sensi, perché le parole sono un trucco’. Un trucco che può essere magnifico o celare poca sostanza, se ne si abusa. Trovo ci sia un limite oltre il quale le parole scritte non possano più compiere nessuna funzione, che si debba per forza lasciarle galleggiare nei sensi che hanno smosso, senza più abusarne, per generare nuove parole ricche di nuovi significati. Sono d’accordo, non si è più quelli di prima dopo aver scritto, perché in qualche modo ci siamo confrontati con noi stessi e non è più possibile ignorare ciò che ci siamo detti.

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