Ci sono ferite che cicatrizzano e che guariscono. Altre che stentano a chiudersi, che ci illudono di essersi sanate, ma basta un momento di buio, una parola tagliente, un incontro, un sogno, per scorticarsi nuovamente e riprendere a sanguinare. Altre ancora che nonostante il dolore che ci hanno procurato si sono trasformate in un ricamo per il nostro cuore, un addobbo, una pietra preziosa: la nostra peculiarità.
Grazie a quel dolore, a quell’abbandono o trauma d’infanzia siamo cresciuti, ci siamo trasformati, abbiamo tirato fuori le ali e le abbiamo spiegate al vento per spiccare il volo. Quel volo che forse, anzi senza dubbio, senza quel dolore non avremmo mai fatto.
La scrittura, attività che amo profondamente, per me quotidiana e potente, rappresenta l’ago e il filo per rammendare le ferite del passato, per ricucire lembi di cuore che in nessun altro modo riescono a ricongiungersi.
Per ricamare con le parole la cura. Per non dimenticare. Per ripassare e riassaporare o per fare riposare in pace. Per fare un regalo. Per dare una degna sepoltura a un dolore.
Quando un paziente va via dal mio studio ma rimane nel mio cuore, sento il bisogno di mettere la sua storia su carta (o meglio word) e di trasformare la sua ferita in racconto. Il suo legame con me non termina allo scoccare del tempo trascorso insieme in studio – nessuno dei due smarrisce la scarpetta come Cenerentola al ballo – ma continua a lungo, in sordina, dentro di me.
Il sabato o la domenica mi regalo sbornie di passione e di scrittura. Scrivo senza sosta, talvolta senza meta, per il puro piacere-bisogno di farlo. La scrittura, per me, è una malattia che mi cura e che cura mentre mi ammala, da cui spero di non guarire mai.
La scrittura ha un potere enorme: racconta e accarezza, ha il potere della cicatrizzazione e della trasformazione, della riparazione.
Ha la forza dirompente delle parole scritte.
Parla alle mancanze facendole diventare presenze. Parla all’assenza che abita in noi. Ci trasporta altrove e parla con l’altrove che c’è in ognuno di noi. Spalanca porte emotive inesplorate. Lenisce solitudini che in altro modo sarebbero insopportabili. Cura. Cicatrizza. Rende lucidi e forti. Regala luce e temperature primaverili dell’esistenza. Ti prende per mano, e parola dopo parola, virgola dopo virgola, ti fa attraversare il dolore; lo trasforma, lo guarda negli occhi senza paura. Lo racconta dandogli del tu, e lo fa diventare il bene più grande che abbiamo.
Le parole che sgorgano da una penna parafulmine collegata a un cuore che pulsa sono lacrime in corsivo. Sono gocce di riguarda. Sono concime per piante che non sbocciano. Per chi vive al buio, per chi galleggia, per chi sopravvive credendo di vivere. Le parole sono gesti, sono cose concrete, sono mattoni e mura di recinzione. Così, passo dopo passo, possono edificare un palazzo, piantare semi e far crescere alberi. Possono trovare il bello nel brutto, il caldo nel freddo, il bene nel male, il silenzio nelle parole e le parole nel silenzio.
E il dopo non sarà mai più uguale al prima.
Le parole e la scrittura sono emozioni in corsivo. Quando scriviamo scegliamo con cura le parole da adoperare che grazie a quell’incontro o scontro con quella persona e non con un’altra vengono fuori: emergono dagli abissi del nostro inconscio. Perché ogni ferita vuole ed è un racconto. Ogni ferita esige un ascolto e richiede a volte in silenzio tante parole per lei, soltanto per lei. Ogni trauma può diventare una meravigliosa fiaba se sapientemente ascoltata, trasformata, restituita, resa parola scritta.
Niente è più bello del rileggere quelle pagine dove siamo stati infelici e sentire che siamo diversi. Che siamo guariti.
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