Ho immaginato di prestare la mia penna a Giordana, nome di fantasia, donna, moglie di lungo corso, mia paziente, ormai stanca e insofferente per i continui silenzi del marito muto e altrove.

Sette. Le ho contate. Sono state solo sette. Brevi. Lapidarie. Senza un sottofondo emotivo. Scollate dal contesto. Inutili. Non comunicative. Scevre di affetto e di reale significato.
Sette parole in un pomeriggio.
Sono veramente stanca di dover centellinare le parole dell’uomo che amo. Che ho scelto come compagno di vita e di viaggio. Come padre dei miei figli.
Non mi piaccio più. Non mi sopporto più. Ho smarrito la stima in me stessa. Ero una donna intraprendente, autonoma e solare. Tutto quello che facevo aveva una luce propria, ero avvolta da un’aura di benessere e di equilibrio psichico.
Mi nutrivo di bellezza e di parole, di reciprocità e di poesia.
Adesso sono diventata implorante. Colei che chiede attenzioni e briciole. Affamata di parole e di manifestazioni di affetto. Non ho idea se il suo disagio si chiami anaffettività, disaffettività, strafottenza, oppure altro. E non ho nemmeno chiaro se il suo non amore nei miei confronti abbia bisogno di una diagnosi clinica per essere giustificato e per fare meno male. Al punto in cui sono arrivata non mi interessa più. Ho deciso di guardare soltanto me stessa, di ascoltare il mio malessere, la mia solitudine, il mio disagio profondissimo e di smetterla di contare le sue (non) parole per me.
Si può sopravvivere a tutto: a un dolore, a una separazione, a un abbandono, a un lutto. Un dolore ti travolge, ti scompagina, ti trafigge. Ti senti ferita profondamente, pensi che non era giusto che accadesse, ma pian piano rimetti insieme i cocci e reagisci: lo attraversi, lo elabori, lo accetti e lo ringrazi anche.
Giri pagina e vai avanti arricchita da quello che ti è accaduto.
Non si può sopravvivere a un silenzio cronico, assordante, a una domenica infinita senza parole e con tanta televisione. Non si può sopravvivere alla mancanza di parole e di gesti affettuosi: le parole mute.
Non si può sopravvivere a quel silenzio punitivo o difensivo che ti raggela il sangue e le viscere, che impedisce al tuo cuore di battere e alle tue parole di sintonizzarsi con quelli altrui; quella morte e quella Siberia del cuore che pian piano congela ogni tua parte vitale.
Così ho deciso che smetterò di contare le sue sette parole. E se un bel giorno dovessero diventare otto o dieci, a me non basteranno più, perché ormai io sono altra e mi nutro di altro. Ho gridato a lungo con tutto il fiato che avevo in petto ma non sono stata ascoltata. Ho smesso di parlare per gridare più forte ma non ha sortito nessun affetto
Così ho deciso che vado via e metto in salvo il mio cuore.


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1 Commento. Nuovo commento

  • Mi ritrovo molto in questa storia, nel mio caso si è trattato di sabato pomeriggi, domeniche, trascorse in solitudine a fare compere, a fare una passeggiata.
    L’unico motivo che ci portava ad uscire erano le partite di basket di Andrea. Stop.
    Ora Andrea e Lisa sono cresciuti (18 e 23), e non abbiamo momenti di svago comuni da condividere, è rimasta la solitudine: stare in casa sul divano oppure uscire sola, si tratta pur sempre di solitudine.
    Sono stanca. Mi sono avvicinata ad un’altra persona, che non mi può dare ciò che veramente vorrei, ma mi ha fatto sentire viva e mi ha dato la speranza che forse (a 54 anni) potrei ancora sperare di incontrare qualcuno con il quale condividere le mie passeggiate, se così vogliamo chiamarle.

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